Ecco cosa ho pensato ieri, mentre rovistavo nella credenza di mamma e mi cadeva l’occhio sull’etichetta di questo barattolino simil vintage in vetro: Pernigotti 1860 – Gianduia.
Subito dopo essermi chiesto come ci fosse finito lì dentro un vasetto di crema spalmabile, mi sono detto: “Però, guarda un po’ come il made in Italy agroalimentare si sa vendere bene: evocando una storia ormai bicentenaria (l’invenzione del metodo – ricetta dei mastri cioccolatai torinesi, affidati al nome della maschera tradizionale della città: Gianduja appunto): fatta di suggestioni, tradizioni, territorio, filiera originaria. Un insieme di valori veicolati da un marchio aziendale all’ombra di cui la reputazione dei dolci italian style di qualità è cresciuta e si è fatta onore nel mondo. Un bel vestito, carico di suggestioni, insomma, che suggerisce al consumatore l’idea di un patrimonio territoriale (e industriale) irripetibile”. Questo ho pensato davanti a quel barattolino.
Poi, per pura curiosità e per riflesso condizionato (lo faccio sempre con le bottiglie di vino), lo ho girato per leggere la controetichetta; arrivato all’ultima riga, leggo: made in TR. “Ma come TR? TR è la sigla internazionale della Turchia. Come è possibile ?”, mi chiedo. La risposta al punto interrogativo grande come una casa che mi si è disegnato in testa, arriva dopo una rapida ricerca in rete. Qualche anno fa – qualcuno con la memoria più buona della mia, senz’altro se lo ricorda – il marchio Pernigotti, con tutti gli accessori, fu ceduto dalla italianissima Fratelli Averna all’industria dolciaria Sanset di Instabul, che fa capo ad un rampantissimo gruppo famigliare turco (i fratelli Ahmet e Zafer Toksoz), capace di un fatturato annuo da 500 milioni di euro, ben distribuito fra ramo energia, farmaceutica e agroalimentare dolciario. Se si considera poi che la Turchia è il maggior produttore mondiale di nocciole tutti i conti tornano ancora di più.
E allora? Allora, va bene così: in tempi di capitalismo ad internazionalizzazione spinta non stupisce che i marchi commerciali vadano e vengono, di qua e di là dal mare e dagli oceani. I brand aziendali, quando sono davvero forti, non hanno patria, sono apolidi. Come i soldi  con cui si comperano e si vendono. E soprattutto sono una merce come tante altre, come un detersivo o come una sedia. Ma c’è qualcuno e qualcosa che ci perde, forse, dentro l’ingranaggio inesorabile del globalismo senza dio e senza patria. I consumatori, che nel mentre acquistano questo barattolo di gianduia, immaginano di sostenere la filiera agroalimentare italiana e al contrario gonfiano il portafogli degli amichetti di Erdogan (ma potrebbe essere chiunque altro). E ci perde il territorio, orfano di una filiera industriale capace di valorizzarlo. Perché quando un territorio si affida, come in questo caso, solo ai brand commerciali, anziché alla tutela dell’origine delle materie prime e dei luoghi e degli stili di lavorazione e di trasformazione, è destinato a diventare merce fungibile.
E allora benedetto sia il sistema delle denominazioni (DOCG, DOC, IGT), con tutti i limiti, soprattutto gestionali, che conosciamo. Benedette siano le denominazioni, quelle che per esempio reggono la piramide del vino di qualità, che saranno pure diventate uno strumento in mano al diavolo (gli industriali e la GDO), ma almeno tengono al riparo il territorio da uno scempio identitario, ed economico, come la crema Gianduia, interamente fabbricata (nocciole included) in Turchia. Ma finemente vestita e agghindata con un abito italiano di alta sartoria.