Per non prenderla troppo alla larga, come ha suggerito l’amico Angelo Rossi in un commento ad un post precedente, dico subito come la penso: questa foga, o fobia, iconoclastica verso SAIT e via Segantini non mi piace affatto. Sto parlando dell’indifferente ilarità con cui sembra essere stata accolta la recente decisione dell’assemblea di Cavit di escludere Sait dalla compagine del consorzio di secondo grado, con una modifica allo statuto della coop di Ravina approvata, diciamo così, per lo meno alla garibaldina.
Questa modifica statutaria, insieme ad altre dall’impatto ancora più devastante sui meccanismi che regolano il rapporto fra cantine sociali e consorzio, non è stata né condivisa né discussa con base sociale del primo grado; un deficit di democrazia partecipativa che denuncia ancora una volta la crescente verticalizzazione manageriale dell’edificio cooperativo trentino.
Ma torno al discorso principale, l’esclusione di Sait dal consorzio di Ravina, di cui a metà anni Cinquanta era stato socio fondatore. E che ha contributo parecchio, attraverso la sua rete distributiva, almeno fino agli anni Ottanta, a commercializzare e a diffondere il vino cooperativo e territoriale.
Ci chiarisce Angelo Rossi, e mi pare di cogliere una certa felice soddisfazione nelle sue parole, che quei tempi sono passati, che ormai ciascun ramo cooperativo può fare da sé. Ma soprattutto l’amico Angelo ci spiega che la decisione è stata adottata per evitare che la Federazione delle Cooperative, e in suo nome i vertici del comparto agricolo, oggi come ieri influenzato da un competitor diretto di Cavit, possa orientare, o disorientare, le scelte assembleari e strategiche di Cavit. Il ragionamento, messo così, non fa una piega. Del resto questa è la versione ripetuta da molti uomini di Cavit in questi giorni.
E tuttavia, mi chiedo, era proprio necessario buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. Cerco di spiegarmi meglio: il movimento cooperativo trentino non è in grado di esprimere una funzione compensativa e democratica efficiente per evitare che si verifichino storture come quelle denunciate? Non è più in grado FTCOOP, di essere garante di tutti i soggetti che la compongono? Perché la soluzione adottata, mi si perdoni l’espressione forte, si avvicina pericolosamente ad una soluzione finale e brutale agita in mondo che assomiglia ad una jungla. Ad una jungla nera di interessi, di personalismi, di potentati e di poteri forti pronti a scannarsi vicendevolmente. E’ davvero così? Io credo di no. Credo che questa stortura potesse essere gestita altrimenti, se solo FTCOOP avesse voluto farlo. Ma non lo ha fatto, perché le ragioni di questo divorzio, che pare essere stato consensuale, sono più profonde e di sostanza.
I due soggetti, il produttore (Cavit) e il distributore (Sait: 77 Famiglie Cooperative sul territorio trentino, 21 Cooperative fuori provincia, 110.000 Soci persone fisiche, 2.400 Collaboratori, 400 Punti vendita serviti di Cooperative, 380 Punti vendita privati serviti nel nordest, 31 Punti vendita rete diretta), nel corso degli anni sono diventati reciprocamente indifferente l’uno all’altro. Un processo di disconoscimento che si è sviluppato contestualmente all’internazionalizzazione di Cavit – che oggi genera l’80 % del suo fatturato all’estero ed è quindi sempre meno interessata al consumo locale e territoriale, sia quello agito dai residenti che quello stagionale dei turisti -, e alla trasformazione di SAIT in un gruppo di acquisto altrettanto internazionalizzato e subalternizzato all’industrialismo del gruppo COOP. Una modificazione del profilo genetico di questi due consorzi di secondo grado che ha generato una distanza reciproca e un distanziamento dalla gerarchia valoriale del territorio. Credo che le ragioni del divorzio stiano qui, dentro questo processo di deidentificazione territoriale dei due colossi cooperativi trentini.
Ma siamo proprio sicuri che è questo, che è la cancellazione del profilo identitario, ciò di cui ha bisogno il Trentino della produzione e della commercializzazione agroalimentare? E’ questa la strada giusta? Un amico, un grande viaggiatore, l’altro giorno, forse citando qualcuno, mi diceva che per andare da qualche parte, per viaggiare verso un luogo, bisogna partire da un territorio, da una casa, da una patria. Ecco, a me pare, che questa vicenda denunci che la casa non c’è più. E allora anche il viaggio – vendere vino all’estero – diventa rischioso, forse inutile. Forse fatale.
Forse solo un viaggio senza ritorno.