C’è un avviso a pagamento oggi sull’edizione nazionale del Corriere della Sera. Pensato e voluto da Gerardo Dalbon, rendenese di Darè che conosco per aver frequentato assieme l’Istituto Agrario di San Michele. Gerry è alto e moro, di non troppe parole, concreto e ironico da schiantare un toro.
Di inserzioni che ringraziano categorie di persone tipo i sanitari dediti alle cure del Covid 19 ogni tanto se ne vedono e se ne leggono. Inusuale, invece, è il caso di un singolo che ringrazia il suo datore di lavoro, facendogli con l’occasione anche una bella e originale pubblicità.
Si può pensare quello che si vuole. A me piace sottolineare al di lì del testo, quanto di positivo si legge fra le righe: valori dimenticati come la riconoscenza, l’amore autentico per il territorio e le persone, la gratitudine per la buona sorte con la giusta soddisfazione per l’impegno di una vita.
Fa piacere che tutto ciò venga da un trentino doc, in una lunga stagione che preferisce discettare sulle magagne piuttosto che impegnarsi a coltivare le virtù.

Diplomato perito agrario nel 1970, il nostro Gerry si iscrive alla nuova facoltà di Tecnologie alimentari, mentre io – per dire del caso personale – rifiutavo Agraria a Padova perché nel piano di studi la mia specializzazione in enologia serviva a ben poco: su 34 esami, questa costituiva solo un terzo di un esame supplementare, al pari di “coniglicoltura”… ; troppo poco per un infatuato del vino. Meglio lavorare subito visto che allora di lavoro ce n’era a bizzeffe.
Ancora chino sulla sua tesi, Gerry, già lavorava attorno alle profilerie di bronzo delle macchine per fare la pasta. Nel settore quell’azienda era leader mondiale e il nostro ebbe buon gioco nell’imporla ai pastifici più avanzati in tutti i continenti. Immagino quanto gli sia piaciuto quel lavoro, se è vero che ancor oggi afferma di non aver lavorato mai nella vita, ma di essersi sempre e solo divertito (certo faticando), prendendolo così, il lavoro.
Volendo poi cambiare, uno così avrebbe trovato impiego anche nel più grosso dei pastifici, ma non ci andò. Accettò invece l’offerta che gli venne da Fara San Martino di Pescara: dieci volte più piccoli, ma altrettante volte con valori più alti quelli della famiglia De Cecco.

Ricordo che a margine di una giornata di fiera, per stare nel personale, mentre stavo accalcato con un centinaio di vip (io ero la classica eccezione, off course) davanti allo stand di Barilla che offriva una cena per selezionati influencer – ricordo, appunto di essermi sentito chiamare per nome: che fai lì Lascia perdere, vieni di qua!
Ma scusi, lei chi è? Dopo un quarto di secolo non l’avevo più riconosciuto il Gerry. Mi convinse, io riottoso, a cenare in soli cinque, con i De Cecco, titolari. Cominciai a capire qualcosa di più del mondo della pasta, dall’artigiano al grosso industriale. A parte il mercato mondiale delle granaglie di Chicago, come nel settore vino, la differenza la fa il sentire dell’imprenditore e il territorio. Vocato come pochi quello della pasta a Fara San Martino, vocato come pochi il Trentino vitivinicolo.
Da allora e per sua iniziativa, le rimpatriate culinarie (Gerry è un anche eccellente gastronomo) con quelli della classe di San Michele sono diventate sistematiche. Con risate e sfottò
che coinvolgono personaggi di calibro che hanno dato molto all’economia e all’amministrazione, non meno che alla formazione.
La formazione, appunto. Quella di San Michele che aveva visto nostro professore d’agraria Livio Marchesoni, scomparso proprio oggi. Avrà certamente dato un’occhiata pure lui all’avviso del suo ex allievo Gerardo Dalbon concludendo che anche il suo impegno, qui sulla terra, non è stato vano. Anzi. Lo ricordiamo con affetto e gratitudine.